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Hemmes L’Alchimista – Beba Marsano

HEMMES: L’ALCHIMISTA
Beba Marsano

A maltrattare il quadro ha cominciato Jackson Pollock. Lui, la tela, se la metteva sotto i piedi. Ci camminava, la calpestava, vi spruzzava sopra il colore o lo sgocciolava direttamente dal tubo. A volte ci mischiava pesanti impasti di sabbia, frammenti di vetro e mozziconi di sigarette, dando vita a quel linguaggio rivoluzionario (dripping), fulminante e violento, di altissima tensione emotiva e drammatica, che ha segnato una delle massime conquiste nella ricerca di libertà dell’arte contemporanea.

Dopo di lui sono arrivati altri. Lucio Fontana, che il quadro lo lacerava (i tagli), Alberto Burri che lo bruciava (le combustioni), Herman Nitsch che lo imbrattava di sangue vivo. Il suo.
Anche per Hemmes (dalle iniziali del vero nome, Maurizio Stiaffini) la tela è un ring, un campo di battaglia, la metafora stessa dell’esistenza, e, insieme, il luogo fisico in cui riportare le trascrizioni dinamiche dei propri tormentati moti interiori. Il luogo in cui dare libero sfogo alla rabbia (“Non ho da raccontare, ho da aggredire”, dice). Il luogo in cui mettere a nudo il dolore per poterlo guardare in faccia fino ad averne ragione. A differenza di altri, però, Hemmes la tela non la violenta. La ammansisce, al pari di un domatore. Ma non trasforma la lotta in spettacolo. Chiama i suoi fantasmi lontano dall’arena, li fronteggia in solitudine. E la sua lotta resta un fatto misterioso e privato.

Le sue tele sono come le pagine di un diario intimo che l’autore ha consegnato alle stampe. Le parti più scabrose sono state omesse. Il lavoro certosino sulla scrittura l’ha epurata dall’affanno e dal disordine per dare al contenuto una forma, quella giusta. E trasformare così il dolore e lo sfogo in emozione e bellezza.
I quadri migliori di Hemmes sono privi di scorie. Non perchè hanno disinnescato il loro potenziale di rabbiosa violenza. Ma perchè non c’è più niente di inutile tra la superficie e la verità.
La pittura di Hemmes ha radici nei fatti di una biografia costellata da una lunga sequenza di prove dolorose e luttuose. E prima ancora di diventare poesia, l’arte è per lui operazione chirurgica e terapia.
Per dipingere non utilizza (se non raramente) il pennello o gli altri strumenti tradizionali del fare pittorico, bensì lo Scottex da cucina e le mani. Inizia dalla carta, o cellulosa, come preferisce chiamarla. Non lo Scottex, ma la velina ripiegata in grandi fogli che strappa, bagna, colora ed asciuga.

La prima operazione, lo strappo, è violenta, aggressiva, drammatica. Lo strappo non si limita a uno solo, ma si ripete due, tre, quattro volte; il gesto riduce la carta in lacerti estesi oppure piccolissimi, che verranno utilizzati anch’essi in questo quadro o in un altro. Gillo Dorfles li definiva “materiali minimi”; “Le scorie che lo scrittore strappa al suo poema, o al suo racconto; tutti i minuti arabeschi che il pittore cancella con le sovrapposte stesure di colore; tutti i ripensamenti poetici, musicali pittorici, che rimangono lettera morta…, sono invece spesso le uniche germinali intuizioni da cui può prendere avvio l’opera autentica”, diceva. Dopo lo strappo c’è l’incontro con la tela, dove la carta viene incollata, e con il colore, di cui la carta viene impregnata.
Il colore e la materia sono le coordinate cartesiane del linguaggio pittorico di Hemmes.
Il suo colore esplosivo (steso con fogli di Scottex) scatena tempeste. Questo colore che registra ogni pulsione, ogni vibrazione, ogni minima intermittenza dell’anima non ha nulla di decorativo, di ornamentale, di capriccioso, ma è voce sonora come l’Urlo di Munch: un acuto che denuncia con forza graffiante verità imbarazzanti. Verità che sono lì, sulla tela, in quella carta rattrappita e ritorta. Non indolori, ma ormai inoffensive. Possiamo toccarle. Estirpate, non fanno più male.

Le impennate di stampo quasi barocco (altro secolo drammatico, inquieto e febbrile) con cui questa cellulosa ferita fuoriesce dal quadro sono testimonianze flagranti di veritù. Sono l’escrescenza, il bubbone, il cancro che Hemmes ha tirato fuori dalle aggrovigliate profondità di se stesso. Sono lembi di carne e aborti dell’anima. Sono l’aspetto visibile del dolore. Ma Hemmes se ne è liberato, l’ha neutralizzato, l’ha anche, in certi casi, ridicolizzato. E lo ha trasformato, come in una operazione alchemica, da pece greca in materia di luce.

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