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La Lunga Attesa – Francesco Mutti

La pittura di Hemmes può passare del tutto inosservata. Uno sguardo fugace al colore, uno più motivato all’ipotesi di una forma ma poi niente di più: e tutto rientra nell’accogliente ambito dell’istante, del momento incalzato dal tempo che passa, dell’apatia intellettuale di un’esposizione che non più di altre rende decenti i vuoti della noia quotidiana.

Sarebbe un fatto accettabile e, comunque, corretto, al quale non si chiederebbe altro che trasparente, inconsapevole sincerità. Eppure non saranno tutti così fortunati: poiché la curiosità gioca brutti scherzi, il cuore atterra la preda e il desiderio di conoscenza l’azzanna alla gola. Hemmes è uno degli ultimi grandi esponenti dell’informale italiano. E su questo non vi è il minimo dubbio: lo è per i sensi più vulnerabili, la vista  e il tatto, attratti da sempre da superfici elusive. E per ciò che racconta: poiché non vi è limite alla terribile bellezza di un vuoto che ti divora dall’interno. Per quei pochi malcapitati che ne hanno subita l’influenza, la sua pittura diviene traumatica, sconvolgente, probabilmente assoluta. Nel senso che, sin dai primi momenti di comprensibile frastuono interiore, l’asticella immancabilmente si alza e niente può essere più come prima.

L’incontro non ha bisogno di grandi preamboli: e rimane il ricordo di una generale asfissia per la quale il fiato diviene improvvisamente corto, i pensieri si fanno caotici e un’onda di panico giunge inaspettata a cancellare ogni altra cosa attorno. Il lavoro del Maestro livornese è, al contempo, gestuale e pittorico, costruito su costanza e improvvisazione emotiva, repentini interventi materici e un automatismo procedurale inconsueto che denuncia quale reale gravità sosti sull’animo di chi intraprende questa strada. La strada dell’Informale, creare per distruggere e distruggere per creare: che poi è metafora della vita – almeno della sua.

Per l’artista, non può esserci che sofferenza e contrasto sulla tela –  e tutto ciò che è sulla tela rimane sulla tela: uno scontro ad armi pari che è comunque senso di rivalsa nei confronti di un’esistenza che concede ben poco e a un prezzo estremamente elevato. Senza sofferenza alcuna, gli strappi di Hemmes non gronderebbero sangue; senza masticare fiele, il suo colore raramente attraverserebbe gli umori dell’animo per riversarsi sugli strati di carta ammassata, incollata e poi mutilata. Contrasti assordanti, metamorfiche ferite in quanto simbolo identitario: egli ha abbandonata la ricerca del segno ormai da tempo, inutile sebbene nobile approccio a una realtà che può plasmare ma non illudere.

Benché talvolta la cicatrice diviene una linea delicata, dolce, sottile come le velature che si intravedono, tra un aspro contorno e un altro, rigido e netto. Le sue sono struggenti ballate di colore puro, inesistenti e lontane vedute, crinali scoscesi o le profondità della terra – che poi sono le sue stesse viscere.

Steso ancora col pennello e asciugato alla fonda di un olio protettivo che lo ricopre e ne quantifica il peso, il colore di Hemmes è il senso del proprio lavoro: la capacità di assegnare un nome a ciascuna emozione, dare un volto al dolore e alla gioia, consegnare la quiete a quel fragore di cui è suo malgrado compagno.

 

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