LE INTERVISTE POSSIBILI
CONVERSAZIONE PLATONICA
Beba Marsano incontra Hemmes
Monet diceva che sarebbe voluto nascere cieco per acquistare la vista repentinamente e dipingere le cose d’istinto, nella loro essenza di colore e di luce. Hemmes è nato cieco?
“Sono cieco tutte le volte che comincio un nuovo quadro. Cecità è la superficie bianca della tela.
Ricomincio a vedere progressivamente. E solo quando, dopo avere lavorato la carta, ha preso forma l’architettura dell’opera. Con l’esplosione del colore il mondo mi si dischiude ed io riacquisto la vista definitivamente. Allora vengo pervaso dalla smania irrefrenabile di arrivare alla fine dell’opera. E a quel punto mi sento di nuovo integro, compiuto, felice”.
All’Accademia eri il migliore disegnatore del tuo corso. Perchè hai abbandonato la figura per l’astrazione?
“Il disegno, in quanto costruzione razionale della realtà, mi costringeva ad assoggettarmi a una visione del mondo che non mi apparteneva: ripetitiva, tradizionale, banale. Facevo nature morte, ritratti, paesaggi, ma non mi gratificavano; tutto era già stato fatto, niente si poteva più aggiungere. Avevo bisogno di liberare da questi gioghi il mio mondo interiore. Avevo bisogno di andare oltre, di dare alla realtà forme e colori diversi. E ho cercato una lingua adatta a esprimere quello che premeva nell’inconscio, quello che neppure io, in realtà sapevo di avere.”
Quando hai avuto l’intima rivelazione della natura emozionale del colore?
“Quando ho scoperto le veline colorate che facevano usare a mia figlia all’asilo. Più tardi ho scoperto anche la sua funzione narrativa, come veicolo di messaggi oltre che di sensazioni. I miei colori mi devono corrispondere, per questo li preparo io stesso utilizzano polveri, diluente e aggregante colloso; per ottenere tonalità più o meno chiare non uso il bianco, bensì il diluente.”
E’ il colore o la luce a dare forza e carattere ai tuoi lavori?
“La luce. È lei che dà forza al colore. Senza luce un quadro non ha profondità, non ha carattere, non ha vita. La luce fa parlare anche il buio, come ha insegnato Caravaggio in um modo che nessuno è più riuscito a eguagliare.”
Per Matisse il colore era la naturale espressione dell’emozione; per gli impressionisti lo strumento di denuncia di un disagio esistenziale e sociale. Il tuo colore è ubriaco di vita e d’amore o urla invece di rabbia e dolore?
“All’inizio pensavo fosse una fuoriuscita di rabbia e dolore. Invece non era che un dolce naufragio. Non sono i colori, ma gli strappi della cellulosa a denunciare le mie ansie, i turbamenti, i dolori. I primi strappi sono stati una liberazione, un vero e proprio alleggerimento interiore. Stappare era, e continua a essere, il modo per fare uscire con violenza quello che di volta in volta si accumula nell’intimo. Quando arrivo a stendere il colore la tempesta è passata e quello che provo è un senso di riappacificazione con me stesso e con la vita”.
A dare vita ai tuoui quadri è un gesto istintivo e casuale come in Pollock o meditato e solenne come in Rothko?
“Del tutto istintivo, a cominciare dalla scelta della materia. Quando arrivo in studio mi trovo di fronte a risme di carta che chiedono solo di essere adoperate. Prendo quattro o cinque di questi fogli enormi e gli strappo, ma non sono io a dare loro una direzione, bensì la carta stessa, che prende forme assolutamente casuali. Io intervengo in seconda battuta, in quella chiamo architettura del quadro: incollo sulla tela la carta strappata, verso il colore, lo stendo con lo Scottex (rarissime volte uso il pennello) e strappo ancora, magari metto altra carta e poi giù altro colore; da queste sovrapposizioni nascono quelle velature che sono la somma di tracce, passaggi del vecchio colore. Alla fine non è più la carta a dominare me, ma il contrario”.
Come nasce la tua ispirazione?
“Assecondo le forme con cui mi si presenta la carta. Poi lascio il quadro e lo riprendo dopo due o tre settimane, quando è passato l’affetto, il coinvolgimento emotivo. Inizio allora l’analisi critica, ma quando devo intervenire provo sempre un senso di smarrimento e disagio. E sento il bisogno di lacerare, strappare ancora”.
E’ questo il momento più difficile?
“No. È quando arrivo al termine di un ciclo e ogni volta temo di essere giunto a uno stop. Allora mi dico: osa, non fermarti, vai avanti, continua a cercare. In fondo, il principale obiettivo della mia ricerca sono io stesso. Come uomo, innanzi tutto, e poi come artista.”
La geografia ambientale ha qualche influenza nella realizzazione dei tuoi cicli cromatici?
“Assolutamente no. I miei sono sempre e solo paesaggi emotivi, senza alcun riferimento diretto alla realtà che mi circonda. È, però, grazie alla natura che ho capito il valore artistico ed estetico delle fratture, delle lacerazioni. Una Domenica, nel corso di una passeggiata sul mare a Castiglioncello, ho visto dei sassi, delle grosse pietre modellate dalla forza del mare e del vento. Lì ho capito che, nella sua distruttività, la violenza può anche generare la bellezza.”
Hai avuto dei modelli nell’elaborazione del tuo stile?
“Non ho mai avuto maestri, solo affinità elettive. Da ragazzo ho guardato ai macchiaioli e ai post macchiaioli; da loro ho imparato il senso delle proporzioni e della sintesi dei particolari. Ma se nella maturità ho elaborato uno stile affine a quello di Crippa e di Rothko è stato in modo del tutto inconsapevole. Quando ho scoperto che Crippa usava come me le veline colorate, per paura di scadere nell’emulazione, ho smesso di dipingere. E quando ho visto che Rothko strutturava i suoi quadri in maniera analoga alla mia, allora ho cambiato io.”
Per Cèzanne c’erano cose che non si potevano riprodurre, ma solo rappresentare attraverso qualche cosa di altro. E’ così anche per te?
“Umori, stati d’animo ed emozioni non possono essere raccontati direttamente, ma solo attraverso la luce ed il colore.”
Hai ricominciato a dipingere una diecina di anni fa dopo un lungo periodo di latitanza dalla pittura…
“Si. Un periodo di buio pittorico che ha coinciso con un periodo di buio esistenziale. Sono stati però, anni importanti anche quelli. Anni in cui è lentamente avvenuta una maturazione inconscia: esperienze ed emozioni si sono aggregate, stratificate, moltiplicate fino a un momento in cui non ho più potuto trattenerle e sono fuoriuscite nella forma che caratterizza oggi il mio stile. I miei quadri si spaccano perchè non possono contenere tutta l’energia che ho dentro.”
Quale è il compito dell’arte in rapporto alla memoria?
“L’arte è memoria, è il nostro Dna, è la nostra storia. Ogni opera di oggi, anche se non lo sa, racchiude il percorso dai fondi oro al delirio contemporaneo.”
Quale è la funzione dell’arte, o almeno della tua?
“La mia non è un’arte programmatica dalle ambizioni universali. Serve soltanto a me stesso. È uno strumento di appagamento e di liberazione che, nei casi migliori, si trasforma in poesia.”